| Quando qualche secondo dopo li riaprì, sorpreso di non aver sentito alcun colpo, si vide circondato da uno strano ambiente. Non era più nell'enorme stanzone bianco, ma in una piccola stanza con le pareti coperte di stoffa rossa. Il pavimento era coperto da un enorme tappeto, e la maggior parte della stanza era occupata da un letto a due piazze a baldacchino, dalle coperte e tende rosse e con uno specchio dietro, al cui centro era appeso un crocifisso d'argento, con al centro uno smeraldo. Il soffitto era a cassettoni, in legno. Ma soprattutto, non c'era una porta in quella stanza. C'era solo una finestra, aperta sull'esterno di... qualunque cosa fosse quel posto. Osaze si sporse, per vedere cosa c'era all'esterno. Fu in quel momento che si accorse di non avere più in mano la sua lama. Ma non si lasciò distrarre da ciò, e appesosi al bordo della finestra con un salto ci si issò sopra. E lo vide. Fuori da quel posto si estendeva un enorme prato, sembrava infinito, si estendeva fino alla fine dell'orizzonte. “Bello, vero?” disse una voce alle sue spalle. Era una voce di donna, e aveva un tono gentile con una sfumatura divertita. Di corsa, il ragazzo scese dalla finestra e si voltò. Seduta sul letto, c'era una donna. Aveva dei lunghi capelli bianchi che le arrivavano a metà della schiena, fu quella la prima cosa che notò. E con bianchi, non intendeva quella sfumatura di grigio che assumono i capelli delle persone anziate. Erano veramente bianchi. Come la neve. Aveva la pelle molto chiara e gli occhi di un azzurro chiarissimo, quasi grigio. Era vestita con un lungo abito rosso da sera, senza maniche, e indossava dei lunghi guanti bianchi. E, soprattutto, le uscivano dalla schiena due ali bianchissime. “Sono felice di incontrarti, Osaze. Ti aspettavo da tempo.” continuò, dopo qualche secondo di silenzio. “Mi... mi aspettavi?” balbettò lui, lievemente imbarazzato da quella presenza quasi eterea. Deglutì per farsi coraggio, e le chiese infine: “Tu chi sei?” “Angeline.” rispose lei sorridendo, poi fece un mezzo inchino. Lui, ancora mezzo basito, ne fece uno di rimando. Ma ora mano a mano stava cominciando a riprendere coscienza, e a diventare curioso. “Dove siamo?” chiese. “Dov'è finito quell'uomo? Perché mi aspettavi?” continuò poi, a raffica. La donna ridacchiò. “Calma, calma... Siamo dentro Giselle, la spada. L'uomo è ancora lì, come tu sei ancora là fuori. Ma non devi preoccupartene. E in quanto a me, ti aspettavo perché tu eri il mio destino.” “Il tuo... destino?” chiese lui. “Certo. Io ti ho aspettato da quando sono stata creata. Io ti ho scelto come mio proprietario. Ho aspettato da sempre che mi raggiungessi qui, ma ora finalmente è venuto il giorno.” Osaze rimase in silenzio. Non era certo di capire. E comunque, non aveva ancora afferrato del tutto cosa intendesse dicendo che erano dentro la spada. “Significa che la tua mente adesso è nella spada, con me. Mentre il tuo corpo invece è ancora fuori, in attesa della tua mente. Ma non preoccuparti, la mente è veloce, e qui dentro il tempo scorre lento.” rispose alla domanda non pronunciata. “Come...” “Te l'ho detto. Entrambe le nostre menti sono nella spada. Io posso sentire cosa pensa o desidera la tua mente. Per questo sono corsa in tuo aiuto quando lo hai chiesto.” Lui la guardò ancora. Non era certo di capire, ma sentiva di doversi fidare. “E allora adesso... che devo fare?” “Adesso uscirai. Il mio nome lo conosci. E saprai anche come usare le tue ali al meglio quando sarai là fuori.” disse lei, sorridendo ancora. Osaze si guardò dietro le spalle. Aveva ragione. Aveva le ali. Non capiva quando le avesse fatte comparire, ma le aveva. Erano corte come ali, e le piume erano grigiastre, ma erano indubbiamente ali. “Buona fortuna.” disse ancora la ragazza, poi tutto d'un tratto la stanza scomparve. Ora si trovava di nuovo davanti all'uomo vestito di nero, ma stavolta sapeva che fare. Quasi senza sforzo prese il volo, e urlò “Mostrati, Angeline!” L'uomo non comprese subito che era successo. Quando alzò la testa e vide nuovamente il ragazzino, dopo una forte luce, con in mano un crocifisso d'argento, comprese che doveva aver attivato al spada. “Bene, adesso sce–” cercò di dire, quando una croce di luce lo colpì in peno volto, facendolo barcollare. Angeline aveva ragione. Sapeva come usare le sue ali. E anche come usare la sua spada, o quel che era diventata. Se lo sentiva nel sangue. Puntò ancora la croce verso l'uomo, e un'altra croce di luce azzurra si schiantò contro di lui, facendolo cadere a terra. Probabilmente si sarebbe potuto prendere la liberà di deriderlo, di fargliela pagare per come lo aveva ridotto, ma invece si limitò a volare giù in picchiata e continuare a lanciare croci lui corpo dell'uomo, troppo stupito e dolorante per gli inaspettati colpi subiti per fare nulla. Continuò a lanciarne finché non notò che l'uomo non si muoveva più. Era forse... morto? Scese a terra. Le ali gli scomparvero, la croce tornò ad essere una spada. Si sentiva stranamente calmo. Non si aspettava che uccidere un uomo sarebbe stato così semplice. Lo guardò, disteso e sanguinante com'era, con i segni dei colpi ancora ben visibili addosso. Poi, come se nulla fosse, si voltò a cercare il fodero della spada. Quando la ebbe rinfoderata, sentì un rumore da dietro. Si voltò di scatto, solo per vedere l'uomo che si rialzava. All'inizio si spaventò, poi ci pensò un attimo e capì che era meglio così in fondo. Se lo avesse ucciso, probabilmente gli avrebbero portato via la spada. E questo non poteva certo permetterlo. L'uomo sputò per terra una boccata di sangue. “Complimenti, piccolo bastardo. Ci sei riuscito.” disse, poi si voltò verso lo specchio. “Portatelo via.” disse in quella direzione. Pochi attimi dopo rientrarono gli uomini di prima, che lo ricondussero alla sua stanza. Ma non più solo, com'era stato fin'ora. Adesso aveva un'amica. Aveva Giselle. Aveva Angeline.
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